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La vita che vorrei

La vita che vorrei
  • 7 Marzo 2023
  • «Vogliamo solo la libertà di indossare o meno il velo. Di vestirci come ci pare. Di uscire con dei ragazzi, di andare a un concerto insieme, di guidare un’auto senza correre il rischio di finire in tribunale. Una vita da donne libere».

    «Internet ha permesso a noi giovani di desiderare il mondo degli altri», spiega Taraneh, 21 anni studentessa dell’Iran occidentale: «Ora ho il dovere di prestare la mia voce a chi è morto per questo».

    di Ava Djamshidi

    Bisogna imboccare siti poco battuti. addentrarsi nei meandri del web, attraversare passaggi segreti virtuali per riuscire a comunica re con queste eroine anonime. Fanno battere il cuore di una rivolta senza precedenti in Iran, un movimento che ormai fa tremare la Repubblica islamica, al potere dal 1979.

    Al loro fianco, ci sono anche tanti uomini che corrono rischi di ogni genere, talvolta mettendo a repentaglio la loro stessa vita. Secondo il macabro rendiconto dell’ong. Iran Human Rights, dall’inizio dell’anno, 35 persone sono state giustiziate (spesso per impiccagione) dal regime dei mullah. All’altro capo del telefono, lei parla, serena. Taraneh (nome di fantasia usato per la sua testimonianza) ha 21 anni.

     Questa ragazza vive a casa dei genitori a Hamadan, una delle città più fredde dell’Iran occidentale, dove prepara il concorso di ammissione all’università. La studentessa descrive la sensazione di rabbia e impotenza provata quando è venuta a conoscenza del destino di Mahsa Amini, la sua ormai tristemente celebre compatriota ventiduenne, morta in un centro di reclusione lo scorso 16 settembre dopo essere  stata  arrestata per aver sfoggiato un abbiglia mento “indecoroso”. L’ennesimo oltraggio dei pasdaran che contribuisce a infiammare gli animi degli iraniani. Come loro, Taraneh sfoga la rabbia sul suo account Twitter. Pubblica messaggi di critica al regime. Qualche giorno dopo, i servizi segreti la chiamano sul cellulare.  Declinano le sue generalità. «Lei ha insultato la Guida Suprema (l’ayatollah Khamenei, n.d.r.) e divulgato notizie false», affermano. I membri di questa organizzazione paramilitare le intimano di cancellare i messaggi in questione.

    «Altrimenti, finirà in tribunale», minacciano. Taraneh esegue… per poi ricominciare a denunciare l’ipocrisia del sistema sui social network, un mese dopo. Perché mai dovrebbe rispettare le loro regole? Il regime ha vietato l’uso dei social, mentre la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, la più eminente autorità del Paese, possiede vari account in diverse lingue che usa per diffondere messaggi di propaganda.

    Per la prima volta nella sua giovane vita, Taraneh decide di uscire di casa senza hijab. «Così facendo, ho l’impressione di protestare. Sono contenta di sostenere la rivoluzione in questo modo», spiega. La ragazza scopre così la gradevole sensazione del vento tra i capelli. «È diventato un piacere, anche se, ora che è inverno, il freddo mi congela le orecchie», dice.

    Da quattro mesi trascorre il 90 per cento del suo tempo senza indossare il velo. «Il restante10 per cento è il tempo che passo con mio padre», precisa. «Esistono due Repubbliche islamiche: una al governo, l’altra in casa. La maggior parte di noi combatte su due fronti: quello politico sociale, ma anche quello familiare. Abbiamo idee diverse da quelle dei nostri genitori». Eppure, anche suo padre ha cambiato opinione. Dopo una gioventù da fervente religioso, ormai è contrario alla Repubblica islamica. Non prega più e non ha più amici tra i mullah. Se vuole che la figlia porti il velo è soprattutto per quel misto di pudore e conservatorismo tipico della sua generazione.

    Taraneh non sopporta più questa pressione. Su Internet ha scoperto la libertà: «Grazie alle applicazioni, le persone della mia età hanno amici in tutto il mondo. Possiamo vedere il modo in cui vivono… e desiderarlo».

    Un desiderio che la spinge a combattere, a modo suo. Tre mesi fa, insieme a un’amica, decide di scrivere lo slogan del movimento di rivolta sul muro di un liceo femminile della sua città. Armata di bomboletta spray, traccia queste parole: Zan (donna in persiano), Zendegi (vita)…
    Mentre si appresta a scrivere la A di Azadi (libertà), arriva un pasdaran. «Era un tipo bassino», ricorda lei. L’uomo si mette a imprecare, le strappa di mano la bomboletta e colpisce sul volto l’amica, rompendole diversi denti. Taraneh gli sferra un calcio nella pancia, lasciandolo senza fiato. Le due amiche riescono a scappare sotto una pioggia i insulti.

    Anche se i genitori e la famiglia si preoccupano, di tanto in tanto Taraneh partecipa alle manifestazioni a Hamadan. Ogni volta il rituale è lo stesso. La studentessa cerca di rendersi irriconoscibile, celando il volto con una mascherina anti-Covid, ottima per respirare in mezzo ai gas lacrimogeni. Si veste come se stesse andando a lezione. Nello zaino, porta sempre dei libri di testo. In tasca un accendino, per poter bruciare le manette di plastica che potrebbero infilarle se venisse arrestata. Taraneh porta con sé anche dei contanti e lascia a casa la carta di credito e lo smartphone: nell’eventualità di un arresto, anche i suoi contatti potrebbero subire delle rappresaglie. Ha sempre con sé un vecchio cellulare con un’altra scheda Sim, per poter contattare la sua famiglia in caso di necessità. Conta stille sue gambe per fuggire, alla bisogna. E ad ogni raduno cerca di circondarsi di amici uomini. «Non ho paura di essere picchiata o uccisa», spiega. «La cosa che temo di più sono gli stupri».

    Anche se i genitori e la famiglia si preoccupano, di tanto in tanto Taraneh partecipa alle manifestazioni a Hamadan. Ogni volta il rituale è lo stesso. La studentessa cerca di rendersi irriconoscibile, celando il volto con una mascherina anti-Covid, ottima per respirare in mezzo ai gas lacrimogeni. Si veste come se stesse andando a lezione. Nello zaino, porta sempre dei libri di testo. In tasca un accendino, per poter bruciare le manette di plastica che potrebbero infilarle se venisse arrestata. Taraneh porta con sé anche dei contanti e lascia a casa la carta di credito e lo smartphone: nell’eventualità di un arresto, anche i suoi contatti potrebbero subire delle rappresaglie. Ha sempre con sé un vecchio cellulare con un’altra scheda Sim, per poter contattare la sua famiglia in caso di necessità. Conta stille sue gambe per fuggire, alla bisogna. E ad ogni raduno cerca di circondarsi di amici uomini. «Non ho paura dj essere picchiata o uccisa», spiega. «La cosa che temo di più sono gli stupri».

    Perché correre tutti quei rischi? «È mio dovere partecipare a questo movimento. La libertà è molto importante. Coloro che ormai sono sottoterra hanno combattuto per noi. Non posso tornare alla mia vita di prima. Sarebbe un disonore se non prestassi la mia voce a questi morti».

    Parla di militanti anonimi che ammira: «Erano molto coraggiosi. Pensavo che lo facessero per compassione, ma in realtà credevano fermamente che bisognasse lottare per l’uguaglianza di genere e la libertà».

    Taraneh è rimasta molto colpita dalla morte di Majidreza Rahnavard, le cui ultime parole sono state divulgate su Twitter. Al momento della sua impiccagione pubblica, il giovane ha trovato ancora la forza disfidare il regime e infondere coraggio nei suoi compatrioti: «Non leggete il Corano, non pregate sulla mia tomba. Siate felici e suonate musica allegra».

    Il suo coraggio ha accresciuto quello della ragazza, anche se, talvolta, le capita di abbattersi. «Non si parla d’altro. Non si pensa ad altro. Le persone stanno male. Siamo tutti traumatizzati. Le cose che ricordano la libertà ci deprimono>>, sospira Taraneh.
    Racconta di essersi commossa nel vedere un uomo che faceva volare degli uccelli, per strada.

    «Vogliamo solo la libertà di indossare o meno il velo. Di vestirci come ci pare. Di uscire con dei ragazzi, di andare a un concerto insieme, di guidare un’auto senza correre il rischio di finire in tribunale ».

    Una vita da donne libere.

    Testo dell’intervista di Ava Djamshidi pubblicata a pagg 91 e 92 del numero del 3 marzo 2023 di Elle.

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