Binocolo
Articoli passati
Donne medico che operano negli ospedali da campo senza anestetico.
Donne sotto le bombe senza più latte.
Donne travestite da bambole violentate nei tunnel.
Donne che muoiono di fatica nelle fabbriche di tessuti.
Donne uccise per troppo amore.
Non è questo il mondo che avremmo voluto vedere alla fine di un anno che lega il vecchio, al nuovo 8 marzo.
Mentre i diritti della persona si affievoliscono e aumenta la fragilità delle conquiste fatte nei decenni passati (diritto all’aborto, tutela delle famiglie di fatto, rispetto della genitorialità) quello delle donne resta un posto scomodo: dove si decide, in fabbrica, a scuola, a casa, perché non ammettete reticenze, incertezze, dubbi, pause.
Non avere paura, non arrendersi, non smettere di ripetere, non sbagliare: la declinazione dei verbi delle donne al negativo va capovolta. Definitivamente. Per tutte.
Avere fiducia, trovare risposte, crescere in sicurezza, decidere liberamente, rafforzare l’identità: sono queste le azioni che vogliamo compiere.
Nelle pagine che seguiranno abbiamo raccolto i testi delle donne del Coordinamento Pari Opportunità della Uil Scuola. Parole che hanno tutte uno stesso punto di partenza: agire, non celebrare.
Buone azioni a tutte.
Francesca Ricci
Contro i femminicidi dobbiamo costruire l’affettività oltre il riflesso dei muscoli
Articolo di Paolo Giordano sulla Newsletter della 27° ora de Il Corriere della Sera
La possibilità della sopraffazione è il segreto meglio custodito dagli uomini, e che tutti gli uomini conoscono. Tutti gli uomini, anche i mansueti. Ognuno di noi (maschi), al cospetto dell’0micidio di Giulia Cecchettin, riconosce in sé l’eco dell’ascesso psichico dal quale talvolta scaturisce l’aggressione: un bolo di possesso, frustrazione, inadeguatezza, odio, invidia, terrore, ferocia, propensione all’ossessività, desiderio di punizione e annientamento e di autodistruzione, che ci riguarda tutti ma che rimane cautamente oscurato dal dibattito pubblico.
In queste ore viene ripreso lo slogan «educate your son», educate vostro figlio. Al di là del suonare come l’ennesimo richiamo soprattutto alle madri, ci sembra che la famiglia non sia mai stata un luogo troppo affidabile di educazione sul genere. E non è comunque il luogo sul quale una società nel suo complesso dovrebbe fare affidamento. Quali altri allora? Qualcuno è in grado di nominare anche un solo contesto nel quale avvenga oggi una costruzione dell’affettività? O abbiamo abbandonato quel tipo di percorso interamente al caso, alla fantasia comoda che le nuove generazioni siano più consapevoli, più aperte, meno sessiste eccetera? Se una parte della società si sta alfabetizzando sulle complicazioni della vita relazionale, si ha l’impressione che l’altra scivoli indietro, e che questo movimento retrogrado non sia legato a una mera distinzione di classe.
«Educate vostro figlio» presuppone inoltre che l’apprendistato all’affettività possa dirsi a un certo punto completo, che la violenza di genere abbia un’età di espressione e una di scadenza (guarda caso, adesso, quella di Filippo Turetta) e che il rapporto con il genere opposto — e con il proprio — non sia invece una negoziazione continua, a ogni stadio della vita (sebbene gran parte dei femminicidi siano perpetrati da giovani o da adulti, se ne verificano con meno clamore anche tra le persone anziane).
Non mi vergogno di ammettere, per esempio, di aver imparato solo da adulto a nominare alcune pratiche segnanti del maschilismo. Ne cito due a titolo di esempio, scusandomi in anticipo con i detrattori degli anglicismi: il catcalling (ovvero l’abitudine di esprimere apprezzamenti alle ragazze per strada) e il mansplaining (ovvero l’abitudine altrettanto diffusa tra i maschi di spiegare come stanno o si fanno le cose). Non che non conoscessi queste pratiche anche prima, che non le conoscessi implicitamente, anzi visceralmente, ma sentirle nominare in anni recenti le ha portate sopra la soglia della mia consapevolezza, rendendomele riconoscibili. È difficile da credere, ma c’è ancora così tanto del rapporto fra i generi a non essere affiorato alla superficie verbale, così tanto che ha bisogno di essere cavato fuori dall’informe delle pulsioni. Quell’«educate your son» ci chiama in causa anzitutto, ancora, come educandi.
Nei giorni successivi allo stupro di gruppo di Palermo vorticava ad esempio in aria la parola «consenso», ma si è depositata a terra prima ancora che iniziassero le scuole. Sarebbe tanto assurdo pretendere che ogni ragazzo e ogni ragazza, anzi ogni bambino e ogni bambina, incappasse almeno una volta nel termine «consenso» prima di addentrarsi nelle tenebre dell’età puberale? Sapere le parole non mette al riparo nessuno, è chiaro, ma può renderci, in media, un po’ più decenti. E diffondere un sillabario minimo sulle molte forme della violenza di genere, a partire dai primi cicli scolastici, non richiederebbe nemmeno un grande sforzo. Mi riferisco a qualcosa di diverso dalle «campagne di sensibilizzazione», che hanno quasi sempre quell’aria di polizia che mira a insegnare a riconoscere il pericolo fuori, come irriducibilmente altro da sé, quando si tratta di imparare a nominare spinte innominate che esistono dentro di sé. In questo senso, nella coincidenza inedita di due donne alla guida, sarebbe davvero importante che il governo accettasse la mano tesa dell’opposizione.
C’è anche una parola che dovrebbe vorticare in aria dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, non la conosco ma è qualcosa che ha a che fare con lo svincolo. Con quanto sia delicato e talvolta pericoloso il momento in cui una ragazza o una donna si svincolano nei confronti di un ragazzo o di un compagno o di un padre. Tra i molti aspetti odiosi di questa vicenda c’è infatti il momento della vita di Giulia Cecchettin in cui l’omicidio è avvenuto, nell’imminenza della sua laurea, appena in tempo per soffocare la sua piena emancipazione. Afferrare, trattenere, bloccare, immobilizzare dalle braccia sono tra i gesti tipici del dominio maschile. E sono, di nuovo, gesti consueti, che ogni uomo sa esistere nei propri muscoli. Talvolta si manifestano in maniera letterale ma più frequentemente vengono traslati, per esempio nel contenere o tagliare o anche solo «gestire» le risorse all’interno delle famiglie.
Alcune delle ragioni per cui l’omicidio di Giulia Cecchettin ci ha tenuto avvinti sono equivoche. Non c’entrano davvero con il fatto che una ragazza è stata uccisa, e nemmeno con la sua giovane età. C’entrano semmai con la piccola borghesia e l’impossibilità di porre una distanza sociale rispetto a quel contesto, e c’entrano con il modo in cui la vicenda si è sviluppata mediaticamente davanti a noi: la scomparsa, la suspence e le congetture, il ritrovamento del cadavere, poi la fuga improbabile e la cattura dell’assassino pedinato dalle telecamere in autostrada.
Quello che altrimenti sarebbe stato il centoduesimo femminicidio del 2023 ha colpito l’immaginazione collettiva anche perché assomiglia a una crime story ben sceneggiata. Così funziona purtroppo la nostra adesione emotiva alla realtà, e così funzionano i media. Per questo assisto con un po’ di scetticismo alle esibizioni diffuse di contrizione maschile. Ma, al netto delle ragioni, il suo assassinio ha dato un impulso. Durerà quel che durerà, poco, meno di un soffio, ma adesso c’è. Non sprecarlo è il solo atto riparativo che come collettività possiamo tentare per lei.
Ulisse, il richiamo delle sirene e il sindacato
Come i pesci nell’acqua in cui nuotano, siamo immersi nel flusso delle informazioni.
Viviamo continuamente esposti a opinioni e punti di vista diversi. Tra realtà e interazioni.
Costantemente circondati da una moltitudine di voci che cercano di catturare la nostra attenzione e influenzare le nostre convinzioni.
La soluzione non può essere quella di tapparsi le orecchie, come fece fare Ulisse ai suoi marinai, per evitare di ascoltare.
Siamo indipendenti, e allo stesso tempo plurali e liberi. Se vogliamo assumere un ruolo ancor più determinante per la tutela dei lavoratori, dobbiamo saper ascoltare, pensare liberamente, decidere con responsabilità.
La Uil Scuola Rua rappresenta tutti i lavoratori della conoscenza e ogni giorno si occupa di difendere i loro diritti, negoziando le migliori condizioni di lavoro e lottando per promuovere il riconoscimento che il personale merita per il lavoro che svolge.
L'ascolto e il confronto non significano necessariamente accettazione acritica. Possiamo prestare attenzione alle opinioni degli altri, anche se diverse dalle nostre, e mantenere una posizione critica, difendere le nostre convinzioni. Avere rispetto del dissenso è parte della democrazia. Come mediare, negoziare e decidere.
Insomma, come Ulisse, possiamo scegliere: ci tappiamo le orecchie oppure andiamo dritti sulla via dei nostri valori.
Io una risposta ce l’ho.
Giuseppe D'Aprile, Segretario generale Uil Scuola Rua
Migliaia di persone irripetibili
È l’uovo di Colombo. Così semplice che alla domanda, perché non si è fatto prima, bisogna rispondere per volontà politica e per divisioni di parte.
700 euro per ogni contratto da trasformare: una cifra così dimensionata da non poter credere. Tanto costa il contratto stabile di un precario della scuola; eppure, si è preferito fare cassa, alimentare le divisioni, utilizzare il personale in modo intercambiabile. È questo il danno peggiore. Si è voluto pensare che un insegnante vale l’altro. Non è così. Come ogni studente è unico, allo stesso modo ogni insegnante è irripetibile.
Sanare anni di sacrifici, di speranze, di fatiche non è facile. Trovare le soluzioni a situazioni impossibili è il compito del sindacato. È così che a furia di ripetere, riproporre, aggiustare, ritentare una proposta semplice fatta con estrema serietà è giunta a buon fine.
L’idea è di prendere le graduatorie che oggi servono per le supplenze, quelle nelle quali sono presenti docenti abilitati e docenti specializzati sul sostegno, e cominciare a fare contratti stabili partendo da lì.
Tecnicamente si chiama: scorrimento delle graduatorie.
Una fase straordinaria alla quale far seguire lo scorrimento delle fasce in cui sono presenti i docenti con almeno tre anni di servizio che, durante l'anno di formazione e prova, potrebbero svolgere anche un percorso per acquisire l'abilitazione.
In questo modo di potrebbe dare un incarico stabile – con garanzia reciproca per insegnanti e studenti di continuità e impegno – a un insegnante su quattro ora in cattedra da precario nelle nostre classi.
Scrivere il curriculum
Che cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
E’ con le parole di Wislawa Szymborska che apriamo questo numero speciale di Banchi di Prova interamente dedicato alle donne, alla percezione che hanno della loro esistenza, della loro figura, della loro essenza. Donne che aderiscono sempre più a loro stesse, che sanno disegnarsi, contraddistinguersi, battersi, riconoscersi.
Scegliere di vivere nel vero e non nel verosimile è la sfida di questo nuovo millennio, giovane e senza ricordi. Le storie di queste pagine raccontano che - l’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so’ - è da questa umiltà concreta, consapevole, piena di coraggio e di slancio, che uomini e donne stanno lavorando perché ciò che facciamo, o non facciamo, determinerà che tipo di futuro ci sarà.
Un magazine on line? Come fate ad essere tra la gente se poi fate un giornale on line?
Dopo la pandemia la necessità di un contatto diretto è diventata fortissima. La relazione personale è tornata preziosa perché a rischio in un mondo di informazioni regalate.
In questo tempo diventa essenziale produrre informazioni, che sono facili da avere.
Sembra che tutti possano averle. Appartengono a tutti. Il loro valore viene regolato non dal possesso ma dall’accesso. L’ho letta pure io, la so pure io, l’ho vista prima io…
Il passaggio dal possesso all’accesso è ciò che stiamo vivendo. È la rivoluzione in atto.
Il disastro della cattiva informazione digitale è che non abbiamo più tempo per chiudere gli occhi. Non abbiamo più silenzio. Questo sistema trasforma anche l’immateriale in merce.
La cultura ha la propria origine nella comunità. Più la cultura diventa merce, più si allontana dalla propria origine. E una volta divenuta merce la comunità cessa di esistere.
E questo alla scuola non possiamo permetterlo.
Vogliamo essere dentro questo nostro tempo: dove i giornali si leggono a video, le informazioni (se buone, e se utili) si salvano col tasto destro del mouse, le parole diventano hashtag, le immagini si condividono. E ci piace utilizzare questi strumenti che ampliano le possibilità. Ci piace imparare, conoscere. Honnis soit chi per primo dice: ti ho mandato il link, ti ho girato la mail, senza spiegare, raccontare, condividere veramente. Come un adempimento.
Ecco leggiamo e poi andiamo a parlarne con le persone. Torniamo ad usare un linguaggio bello e trasparente, facciamo crescere le emozioni e l’entusiasmo.